02/11/2011: Il Pacific Trash vortex continua a crescere
Cresce costantemente il Pacific Trash Vortex, l’accumulo di rifiuti di plastica che galleggiano nell’Oceano Pacifico. Con decine di milioni di tonnellate di detriti
che fluttuano tra le coste giapponesi e quelle statunitensi, si tratta
di fatto della più grande discarica del pianeta. Secondo scienziati ed
oceanografi, fra cui Marcus Eriksen, direttore di ricerca presso l’Algalita Marine Research Foundation, la sua estensione ha ormai raggiunto “livelli allarmanti”: forse “il doppio di quella degli Stati Uniti”. Ma come può essere così vasta? Raggiunto telefonicamente da ilfattoquotidiano.it,
il dottor Eriksen ha spiegato che il Trash Vortex “non forma un’isola o
un’accumulazione densa di frammenti. La densità è simile a quella di un
cucchiaio di confetti di plastica sparsi su un campo di calcio”. Fra i
rimedi consigliati dagli esperti, spicca la necessità di abbandonare
globalmente i sacchetti di plastica usa e getta. Una scelta già fatta dall’Italia, che adesso tutta l’Europa vuole imitare.
Palloni da calcio e da football, mattoncini di Lego, scarpe, borse,
kayak e milioni di sacchetti usa e getta. Sono questi gli ingredienti
della “zuppa di plastica” che anno dopo anno si sta impossessando del
Pacifico. Un quinto di essi, secondo gli studiosi, proviene da oggetti
gettati da navi o piattaforme petrolifere, il resto dalla terraferma.
Questo enorme vortice di rifiuti è però visibile solo da navi e barche,
non dai satelliti. Esso si trova infatti al di sotto della superficie
marina, fra i pochi centimetri e i 10 metri di profondità.
Scoperto alla fine degli anni ’80 dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) ma reso noto soprattutto da Charles Moore, il Great Pacific Garbage Patch
(altro nome del Trash Vortex) si divide in due grandi blocchi: “Uno a
circa 500 miglia marine dalle coste californiane, ed uno al largo di
quelle giapponesi – spiega il dottor Eriksen – connessi dalle correnti
che ruotano in senso orario attorno ad essi”.
In quest’area del Pacifico settentrionale le correnti portano ogni anno ad accumularsi enormi quantità di rottami marini
e rifiuti, composti per il 90% da plastica, di cui si ritrovano anche
pezzi fabbricati negli anni ‘50. Le materie plastiche, infatti,
fotodegradandosi possono disintegrarsi in pezzi molto piccoli, ma
sostanzialmente non si biodegradano. I polimeri che le compongono
possono così finire nella catena alimentare, in quanto queste briciole
vengono scambiate per plancton o altri tipi di cibo da molti animali
marini. Un problema comune anche al Mare Mediterraneo, che vede però nelle dimensioni raggiunte nel Pacifico un fenomeno decisamente allarmante.
Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep),
già nel 2006 ogni miglio quadrato di oceano conteneva 46mila pezzi di
plastica galleggiante. Oggi, secondo i calcoli più recenti, si è
arrivati con il solo Trash Vortex ad un totale di 100 milioni di
tonnellate. Per Charles Moore il problema è dovuto
soprattutto all’enorme diffusione nel mondo dei sacchetti di plastica.
Se non se ne ridurrà il consumo, avverte “Captain” Moore, “questa massa
galleggiante potrebbe raddoppiare le sue dimensioni entro il prossimo
decennio”.
Un fenomeno, quello dei sacchetti usa e getta, di cui si sta discutendo
molto in Europa, ma che finora ha portato solo l’Italia a metterli
definitivamente al bando. Nel Belpaese, una volta tanto all’avanguardia
nella tutela dell’ambiente, la legge che dall’inizio del 2011 vieta la
produzione e la commercializzazione di questi sacchetti è diventata
infatti un esempio virtuoso per tutto il resto del vecchio continente.
Tanto che, secondo una consultazione pubblica della Commissione europea
sull’uso delle buste di plastica non biodegradabili, a cui hanno
partecipato oltre 15mila cittadini dell’Ue e centinaia fra associazioni,
Ong ed università, “il 70 per cento degli europei vuole che il bando italiano venga esteso al resto dei Paesi membri”.
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