Una calma domenica di fine anno è un'ottima occasione per ammirare il sorgere del sole sul mare, e godere dello spettacolo che la natura del Salento ancora sa offrire; così, di buon mattino, la mia sveglia suona: sporgo un braccio da sotto le coperte per zittirla in fretta, e non svegliare così il resto della famiglia, placidamente addormentata.
Mi vesto velocemente, ascoltando i respiri regolari e sommessi; poi abbandono il tepore di casa per salire in macchina, destinazione: la costa Adriatica. L'aria fresca del mattino mi aiuta a liberarmi degli ultimi lacci del sonno. Appena una manciata di minuti alla guida, e già mi affaccio sul mare calmissimo; qui mi attende una sorpresa: alcune macchie nere nuotano sulla superficie lattiginosa: è uno stormo di cormorani, intenti a pescare nei primi chiarori del mattino. Le loro evoluzioni mi affascinano; si tuffano ad intervalli regolari, con movimenti sinuosi; poi rispuntano in superficie all'improvviso, spesso distanti dal punto di immersione.
A volte la loro apnea è infruttuosa, altre volte invece li osservo riemergere stringendo qualcosa di vivo nel becco, guizzante e lucente. Allora, sollevando il lungo collo con un movimento aggraziato, proiettano la loro preda per aria e, spalancato il becco sottile, ingoiano la preda. Altre volte smettono di pescare, si accostano l'uno all'altro, e si sfiorano con il becco, come per salutarsi; poi ricominciano le loro ricerche, infilando la testa sotto la superficie.
Cerco di avvicinarmi con cautela, riparato dalle basse dune costiere; riesco così a filmare qualche fugace momento della loro attività senza disturbarli.
Seguendo il loro andirivieni lungo la spiaggia, mi imbatto in una coppia di garzette che pattugliano la battigia caracollando sulle lunghe zampe, anch'esse intente a pescare.
E ora benedico quella sveglia, che mi ha costretto ad abbandonare il tepore delle coltri, se pur di malavoglia; lo spettacolo che ho davanti agli occhi merita certo qualche piccolo sacrificio.
Continuo felice la passeggiata, costeggiando gli specchi di acqua salmastra posti a ridosso delle dune sabbiose, che sono ricetto per numerose specie animali.
Osservo una coppia di Martin Pescatore, dai caratteristici riflessi sgargianti; un tuffetto, instancabile apneista, trascorre la maggior parte del tempo sott'acqua; ogni qualvolta cerco di inquadrarlo con la videocamera, eccolo sparire, proprio nel momento in cui mi accingo a filmare; sembra quasi che lo faccia apposta.
Dopo avere osservato il decollo di un maestoso airone cenerino, mi dirigo verso la spiaggia; il sole è ormai sorto, illumina il mare; poi qualcosa cattura la mia attenzione. Non sembra uno dei tanti rifiuti abbandonati che affollano le nostre spiagge, sopratutto d'inverno; la sagoma mi è familiare; mi avvicino, spinto dalla curiosità. Ora che mi è proprio davanti, la riconosco: è una tartaruga caretta o quel che ne rimane: giace immota sulla sabbia, a poca distanza dal bagnasciuga.
Deve essere stata trascinata fin qui dalle mareggiate dei giorni scorsi; è ormai ridotta ad una macabra maschera: le ossa del cranio sono ormai quasi del tutto scoperte; è visibile la struttura ossea delle pinne. Che animale magnifico doveva essere in vita: è un esemplare adulto, lungo circa 70 cm; è insolito che sia finita qui. Osservo i poveri resti con attenzione: chissà, forse potrei averla incontrata in passato, forse mi ha nuotato vicino, stupendomi con la sua grazia ed eleganza, e mettendo così a nudo tutta la goffaggine insita nel mio essere un visitatore occasionale del suo ambiente; quel mare che, da quando ho memoria, mi ammalia con la bellezza e la magia che racchiude in se.
Ora invece giace ai miei piedi, sottratta per sempre al suo ambiente.
Mi domando cosa può averne causato la fine: sul corpo non sono visibili traumi evidenti, quali potrebbe lasciare un improbabile morso di un predatore, o una molto più probabile collisione con un'elica; forse come tante sue simili sarà rimasta vittima della plastica alla deriva che infesta tutte le acque del globo; forse avrà scambiato il fluttuare di qualche sacchetto con il pigro nuotare di una medusa; un errore comprensibile, vista la somiglianza, ma fatale: il suo apparato digerente si sarà ostruito, condannandola ad una morte atroce.
La magia che fino a quel momento mi aveva accompagnato per tutta la mattinata si è dissolta; decido comunque di continuare la mia passeggiata, pur conscio che non la ritroverò più.
Questa spiaggia che conosco e frequento fin da bambino, è ora invasa dai rifiuti, che il mare restituisce al mittente: giocattoli in pezzi, contenitori di detersivi, di bibite, di carburanti, ed ancora imballaggi, spazzolini; ovunque poi, gli onnipresenti mozziconi di sigaretta. Sono i segni evidenti dell'epoca che stiamo vivendo, la nostra epoca, l'antropocene. Mi domando per quanto tempo questi rifiuti fossili testimonieranno della nostra follia.
Poco più avanti una nuova macabra scoperta mi aspetta: un'altra carcassa; questa volta appartiene a un delfino.
A giudicare dalle sue condizioni, sembra che abbia condiviso lo stesso destino della tartaruga; ma cosa può aver causato il decesso quasi contemporaneo di questi splendidi abitanti del nostro mare?
Il mio primo sospetto, il mio primo pensiero, si condensa in due parole: Air Gun.
È cronaca di questi giorni: le navi della Northern Petroleum hanno iniziato le loro prospezioni sismiche, alla ricerca insensata del petrolio nascosto sotto il mare Adriatico, risaputamene scarso e di pessima qualità. Per questo viene usato l'Air Gun: uno strumento che produce potentissime esplosioni di aria compressa, che rivelano la presenza di petrolio anche a grande profondità. Ovviamente l'onda d'urto prodotta, prima di colpire i fondali, si propaga nell'acqua circostante con effetti devastanti: l'intensità delle onde sonore prodotte dalle esplosioni può superare, vicino alla sorgente, i 250 decibel, quando la soglia di rischio da non superare per noi esseri umani è stata individuata dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) intorno ai 65 decibel.
A 20 miglia di distanza dalla sorgente (38 Km.) l'intensità delle onde sonore raggiunge ancora i 117 decibel, un boato paragonabile a quello prodotto da un Jet in fase di decollo; questo vuol dire che, in un mare come l'Adriatico, largo mediamente 80 miglia, è praticamente impossibile sfuggirne gli effetti.
Tutto questo già lo conoscevo, per averlo letto; ma è cosa ben diversa vedere qui, davanti a me, questi resti semisepolti dalla sabbia. Ripenso ai miei incontri con i delfini, durante le traversate del canale d'Otranto; accorrevano numerosi a giocare, surfando l'onda di prua della nostra barca, e saltando lieti intorno a noi. Uno spettacolo indimenticabile per chiunque vi assista.
Ora scruto i resti che giacciono ai miei piedi; per gli animali marini come questo delfino, l'organo di senso principale non è la vista, ma l'udito. I delfini, così come gli altri mammiferi marini, hanno sviluppato un sonar naturale, grazie al quale si sono meravigliosamente adattati alla vita in mare aperto: grazie al loro senso dell'udito sono diventati i dominatori incontrastati del mare aperto. Ma l'onda sonora generata da un Air Gun può danneggiare irreparabilmente questi organi di senso, rendendoli ciechi nel loro elemento; ciechi come saremmo noi, se i nostri occhi venissero rivolti direttamente alla luce violenta del sole, anche solo per pochi secondi.
Certo le cause della morte potrebbero essere diverse; ma le circostanze di questo doppio ritrovamento sono quanto meno sospette; sarebbe utile raccogliere quante più segnalazioni possibili di analoghi ritrovamenti lungo le coste adriatiche, corredandoli di data, luogo e da una fotografia. Potente inviarci questi dati al nostro indirizzo email: info@arthasodv.it. Provvederemo a raccoglierli ed a divulgarli.
Eccoci nell'Antropocene: l'età della follia.
30/12/2011- Sandro Notarangelo
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